​
GALLERIA DI OPERE IN POESIA E ARTE CONTEMPORANEA
con Critiche in Semiotica Estetica di Fulvia Minetti
Eugenio Cavacciuti (Ettore Fobo)
Lode a ciò che annunciano i venti
Dove la musica respira di abbandono ed irradia
dal fondo della fugacità e dal fondo dell’attimo
lo splendore perduto di qualcosa di perpetuo
quando la voce dell’idolo esplora i silenzi
e il pensiero è un’energia che consacra
al divampare e allo scorrere e muta
ogni precipizio in fontana perenne
e ogni melodia insegna a fiorire
all’abisso che trema di una danza antica.
Qui si fondono i secoli nel crogiuolo
e il verso scolpito fugge dall’icona
e torna a sentirsi, anche nel pieno del naufragio,
questa felicità bambina che consente
ogni segreto, ogni deserto, ogni rivolta.
Così, nell’amnio del non detto errano
galassie che sfidano Dio e la sua parola
e noi che siamo eco e frammento di questo
naufraghiamo in ciò che precede ogni sfarzo
nel luogo dove la luce sboccia dal silenzio.
Critica in semiotica estetica della Poesia “Lode a ciò che annunciano i venti” di Eugenio Cavacciuti (Ettore Fobo)
La parola in gloria del Cavacciuti coglie tutta l’armonia della compresenza degli opposti: la molteplicità e il divenire del vento sono le modalità stesse della sacralità dell’essere, che mai scade ad ente, è invece possibilità illimitata d’interpretazione, che congiunge l’istante al valore dell’eterno. Nel grembo alchemico di una volontà di potenza, mondo vero e mondo reale coincidono, nella sintesi della dialettica fra la danza della tensione trascendente e la gravità umbratile dell’abisso. Non c’è verità apofantica, il fanciullo divino infrange i valori precostituiti in un rovesciamento trascendimento, per quell’assenso alla vita, ove necessità e libertà si fondono per un senso nuovo.
Vertigine
Mucchio di papaveri sbrecciati in un canto,
tenue sorge una musica che avevamo dimenticato,
la musica del nostro principio.
​
E non importa se a dirlo in versi è una malinconia,
fu il passaggio e la rosa d’ombra credo
inseguita nel suo dislessico sfiorirsi addosso.
​
Come quando sulla punta dell‘addio
germoglia il ritorno o come quando la lama dell’attimo
sembra perpetuarsi ben oltre la sua eco.
​
È una forma di gloria, io credo,
la luccicanza dell’abbandono in tenebroso serpente,
in fantasioso stordimento di forme,
laggiù, spazzate via…
​
La nostra materia è un filo appeso all’infinito,
un refolo di vento la spezza.
​
Noi siamo soli
nel guscio della vertigine.
Critica in semiotica estetica della Poesia “Vertigine” di Eugenio Cavacciuti (Ettore Fobo)
In abbraccio ad un simbolismo universale e archetipico abissale, la parola del Cavacciuti in arte Ettore Fobo è viaggio eroico alla rinascita della coscienza, che sfida le vertigini dell’inconscio, alla ricerca del lucore del suono della verità prima, in monocordo di un silenzio. È la mancanza costitutiva della molteplicità il movimento di transito, che ricerca l’unità primigenia dall’ineffabile materia indifferenziata dell’ombra, oltre il dualismo, al tempo circolare. L’uomo è la solitudine di un inarrestabile principio, albedo rituale di un’eternamente ritornante cosmogonia embrionale.
Ti dico astrali
Ti dico astrali
reminiscenze senza riflessione,
come il battito del tirso
nell’osso sacro dove nasce
il serpente squamato d’innocenza.
Pulsazione ritmica che impiega
i millenni di una segreta strategia
per diventare tempo e mondo nella luce
imperitura, se il guscio transitorio
di una tenebra profonda ancora ci protegge.
Colui che dilapida venti nel segreto
dilagare nell’ebrezza e nel dono
ci assiste con il permanere
ci trema dentro con la dissolvenza;
nella dinamica intraducibile di una danza
che dal magma incandescente della terra
sale fino a diventare una vertigine
nella mente di un dio che allo specchio
vede se stesso moltiplicarsi e divenire.
Così l’aedo la metamorfosi onora
disperdendo il suo volto nell’eccesso,
mentre nella sabbia con il tirso
disegna la fugacità e la contraddice.
Critica in semiotica estetica della Poesia “Ti dico astrali” di Eugenio Cavacciuti (Ettore Fobo)
Cosmogonica, la parola rituale del Cavacciuti, in Arte Ettore Fobo, è atto irriflesso e precategoriale di fondazione relazionale dell’origine. L’uomo è segno per l’oggetto della vita eterna, al di là del bene e del male e nella sintesi di entrambi, rendendone partecipe il divenire comunitario, rammemora il divino immemoriale.
Teorema
In questo abbuio di sole,
che dentro la voce ti trema,
se gigli ebbri e dimentichi sfogli
e il soffione della tua vanità
si dissolve nella vertigine,
se tieni in mano un’arancia
gustando l’ombra indolente
di una malinconia da principessa,
se precipita il sole nella danza
e il tuo drink è un grimorio
di colori festanti e lasci andare
il precipizio dei ricordi
al volo di una perplessa eleganza,
allora ovunque senti la risata
delle galassie fondersi col suolo,
dove Icaro mi sono schiantato
nell’adolescenza che seppe
la luna riesumare e la sua erranza.
​
Ho lasciato sul selciato il tuono
di quest’ombra che m’incanta.
Ho lasciato che il vento annunziasse
tutta la liberazione dei secoli
e i segreti impressi nella pietra
imponessero la loro ieratica
maestà d’inanimate divinità.
È così. Ogni parola centellina
grida sopite e poi, davvero intimo,
un fragore di stelle e di serpenti
il prolungato sibilo terrestre.
​
Critica in semiotica estetica della Poesia “Teorema” di Eugenio Cavacciuti (Ettore Fobo)
Fra il mediano e il dimidiante è la parola del Cavacciuti in Arte Ettore Fobo, a guardare profondamente per trovare il segreto del divenire essente, che lega e rilega gli opposti. Finanche lo schianto di una caduta rinsalda la ierogamia del cielo alla terra, la deità alla pietra, perché nella parola dimori l’evento universale.